Viceregno / Il Cinquecento
Passato il Regno di Napoli sotto il dominio spagnolo, nel 1503 Consalvo de Cordoba, in nome del re di Spagna, confermò al Caraffa il possesso dei feudi ed il titolo di conte per i servizi resi contro i Francesi, titolo poi riconfermato nel 1506 dal re Cattolico (1). Sempre in questi anni con privilegio del 20 giugno 1504 il re Cattolico conferma il feudo di Polligrone ai fratelli Bernardino ed Antonio d’Eboli, feudo che poi passerà a Francesco d’Eboli. Lo stesso re, il 5 maggio 1507, concedeva a Giovan Battista Spinelli la contea di Cariati, compresa la città di Cerenzia, nel territorio della quale il conte successore Ferrante Spinelli, prima della metà del Cinquecento, ripopolava con genti venute da levante il casale di Belvedere e fondava il casale, che da lui prese il nome di Montespinello (2). Casabona ed altre terre andavano in feudo a Ferrante d’Aragona (3) e la città di Strongoli, tolta dapprima ai Sanseverino, perché si erano schierati con i Francesi, fu poi a questi nuovamente concessa (4). I feudi di Cotronei e Carfizzi, che erano rimasti a Ioannetto Morano, che aveva aiutato il principe Federico al tempo della “Congiura dei Baroni” (5), passarono ad Enrico e nel 1507 al figlio Luca Antonio, che ottenne l’investitura di Santa Vennera “cum territoriis Trivij, Carfide”. Il figlio Giovan Francesco Morano alienerà nel 1563 “Scarfizzi” al cosentino Giovan Filippo Badolato (6). Sempre all’inizio del Cinquecento l’ultimo marchese di Crotone, Antonio Centelles, catturato e fatto schiavo dai pirati, è lasciato morire in prigionia assieme al figlio nel 1505, nonostante tutti i tentativi fatti dalla moglie Leonora di riscattarlo (7).Il ritorno del rito greco
Iniziato sul finire del Quattrocento, continua nella prima metà del Cinquecento l’esodo delle popolazioni greco- albanesi verso la Calabria. I nuovi arrivati, quasi sempre gente povera, sono sfruttati dai baroni del luogo come manodopera a basso prezzo, da contrapporre per contrastare ogni rivendicazione dei loro vassalli. Gli Albanesi sono utilizzati dai baroni per ripopolare feudi e terre in abbandono ed incolte. Essi hanno ripopolato e dato nuova vita a molti abitati della vallata, situati in luoghi per lo più poco fertili ed inospitali. La loro presenza è predominante soprattutto a Carfizzi, San Nicola dell’Alto, Zinga, Monte Spinello, Belvedere Malapezza, Scandale e Cotronei (58). I nuovi venuti, nonostante le persecuzioni da parte della gerarchia cattolica, mantengono il rito greco, che all’inizio del seicento è ancora celebrato a Scandale (59), Montespinello (60), Belvedere (61), Carfizzi (62), S. Nicola dell’Alto (63), Papanice (64), Cotronei (65) e nel casale di recente fondazione di San Giovanni di Palagorio (66). Parrocchiali di rito greco intitolate a San Nicola sorgono accanto alle parrocchiali latine a Caccuri, Casabona, Cotronei, S. Nicola dell’Alto, S. Severina, Scandale, Papanice e Crotone. In alcuni casali gli Albanesi utilizzano antiche chiese latine preesistenti come a Cafizzi (Santa Venere), Pallagorio ( San Salvatore) e Strongoli ( Santa Maria della Greca). I poverissimi casali abitati dai “Greci”, gente dedita al lavoro dei campi ed utilizzata anche come manodopera per la costruzione delle fortificazioni, sono costituiti quasi completamente da tuguri e pagliai, cioè da costruzioni in canne e paglia, di facile demolizione soprattutto all’avvicinarsi dei contatori di fuochi.
Malvisti dalla popolazione latina, essi dopo il Concilio di Trento sono perseguitati di continuo dai vescovi, i quali colpiscono ogni tradizione pagana. “ I curati.. invigilino di rimuovere l’abuso delli lutti, et pianti immoderati, si fanno nelli morti, et funerali, et vietino espressamente si come noi vietamo sottopena di scomunica, che l’homini et le donne si graffino le faccie, et che l’istesse donne lascino l’abuso di battersi i petti et fare reputi et di proseguir lo cadavero alla chiesa, d’entrar a fare simili lamenti, et pianti nelle chiese.. et li medesimi curati, ci diano nota di quelle donne, che sotto pretesto della morte delli suoi, restano le Domeniche et feste di precetto d’intervenire et essere presenti al sacrificio della S.ta Messa, et d’andare a sentire la parola di Dio” (67).Verso la decadenza
La tassazione focatica del 1521 fa emergere l’importanza che conserva ancora all’inizio del Cinquecento la città di Santa Severina (tassata per 450 fuochi), alla quale seguono nell’ordine per popolosità Caccuri (185), Verzino (181), Casabona (179), Strongoli (172) e molto distanziate ed in decadenza le due città vescovili di Cerenzia (95) e Umbriatico (66) e da ultimi Rocca di Neto (52) ed i due casali albanesi di Carfizzi (23) e San Nicola dell’Alto(9) (68). L’aumento della popolazione, che come si evidenzia dalle numerazioni dei fuochi tra il 1532 ed 1578, quasi raddoppia, oltre che dalla mancanza di gravi epidemie e per la favorevole congiuntura economica e commerciale è determinato anche dall’immissione sul territorio di genti albanesi, greci e schiavoni (69). Nel 1530 incomincia la formazione del nuovo casale con greci e schiavoni attorno al monastero di San Giovanni in Fiore per concessione di Carlo V al commendatario Salvatore Rota (70). Seguirà con le stesse popolazioni quello di Altilia per opera del commendatario Tiberio Barracco. Sempre prima della metà del Cinquecento vengono fondati i casali di Monte Spinello, di Belvedere, di San Mauro e di Scandale e forti aumenti di popolazione sono segnalati un po’ in tutta la vallata: a Caccuri, Cerenzia, Santa Severina, Strongoli Umbriatico e Verzino. L’andamento positivo subisce alla fine del secolo una drastica inversione . Determina la diminuzione della popolazione il ripetersi di raccolte sterili e di pestilenze, tra le quali la gravissima epidemia del 1592, quando “avvenne una mortalità così grande per tutta la provincia che si fe’ calcolo esserne morta la terza parte delle genti” (71). Contribuiscono alla decadenza anche le frequenti incursioni turchesche, tra le quali è da annoverare quella che investe Strongoli e gli abitati della bassa vallata ad opera dell’armata del Cicala nell’agosto/settembre del 1594.La costruzione della torre di Fasana
La costruzione di una torre a Fasana in territorio di Strongoli, a sinistra e presso la foce del Neto, si inserisce nel tentativo da parte dei feudatari e dei grandi proprietari terrieri di mettere al riparo la vita ed il raccolto dai sempre più frequenti saccheggi dei turcheschi e dei banditi. La torre inoltre servirà come magazzino in cui ammassare il grano, nell’attesa di imbarcarlo per Napoli dal vicino scaro presso la foce. Si deve all’aristocratico crotonese Lelio Lucifero la decisione e l’onere della costruzione. Il Lucifero tramite il suo amministratore Gio. Andrea Puglisi, darà inizio all’opera nel 1586. I lavori di costruzione saranno eseguiti sotto la direzione del mastro fabbricatore cutrese Giuseppe La Macchia, che è aiutato nella costruzione da due mastri e da manipoli (74). Morto in quello stesso anno Lelio Lucifero le sue proprietà, tra le quali il territorio di Fasana con torre e magazzini, passarono al fratello Jo. Paulo Lucifero, ma essendo dopo poco morto anche costui, subentrò il figlio di costui Lelio Lucifero juniore. Per la minore età di quest’ultimo il tutto nel 1591 è sotto la tutela della madre Isabella Leone, moglie del fu Jo. Paulo Lucifero (75).Il ritorno del rito greco
Iniziato sul finire del Quattrocento, continua nella prima metà del Cinquecento l’esodo delle popolazioni greco- albanesi verso la Calabria. I nuovi arrivati, quasi sempre gente povera, sono sfruttati dai baroni del luogo come manodopera a basso prezzo, da contrapporre per contrastare ogni rivendicazione dei loro vassalli. Gli Albanesi sono utilizzati dai baroni per ripopolare feudi e terre in abbandono ed incolte. Essi hanno ripopolato e dato nuova vita a molti abitati della vallata, situati in luoghi per lo più poco fertili ed inospitali. La loro presenza è predominante soprattutto a Carfizzi, San Nicola dell’Alto, Zinga, Monte Spinello, Belvedere Malapezza, Scandale e Cotronei (58). I nuovi venuti, nonostante le persecuzioni da parte della gerarchia cattolica, mantengono il rito greco, che all’inizio del seicento è ancora celebrato a Scandale (59), Montespinello (60), Belvedere (61), Carfizzi (62), S. Nicola dell’Alto (63), Papanice (64), Cotronei (65) e nel casale di recente fondazione di San Giovanni di Palagorio (66). Parrocchiali di rito greco intitolate a San Nicola sorgono accanto alle parrocchiali latine a Caccuri, Casabona, Cotronei, S. Nicola dell’Alto, S. Severina, Scandale, Papanice e Crotone. In alcuni casali gli Albanesi utilizzano antiche chiese latine preesistenti come a Cafizzi (Santa Venere), Pallagorio ( San Salvatore) e Strongoli ( Santa Maria della Greca). I poverissimi casali abitati dai “Greci”, gente dedita al lavoro dei campi ed utilizzata anche come manodopera per la costruzione delle fortificazioni, sono costituiti quasi completamente da tuguri e pagliai, cioè da costruzioni in canne e paglia, di facile demolizione soprattutto all’avvicinarsi dei contatori di fuochi.
Malvisti dalla popolazione latina, essi dopo il Concilio di Trento sono perseguitati di continuo dai vescovi, i quali colpiscono ogni tradizione pagana. “ I curati.. invigilino di rimuovere l’abuso delli lutti, et pianti immoderati, si fanno nelli morti, et funerali, et vietino espressamente si come noi vietamo sottopena di scomunica, che l’homini et le donne si graffino le faccie, et che l’istesse donne lascino l’abuso di battersi i petti et fare reputi et di proseguir lo cadavero alla chiesa, d’entrar a fare simili lamenti, et pianti nelle chiese.. et li medesimi curati, ci diano nota di quelle donne, che sotto pretesto della morte delli suoi, restano le Domeniche et feste di precetto d’intervenire et essere presenti al sacrificio della S.ta Messa, et d’andare a sentire la parola di Dio” (67).http://www.archiviostoricocrotone.it/